La cava e il morto

di Maria Pia Pieri

Era disteso sulla grande lastra di marmo della cava come sul palcoscenico di un anfiteatro, alto, magro, ben vestito, apparentemente addormentato. Così l’avevano trovato cinque escursionisti domenicali, saliti lassù fino a quella cava abbandonata, famosa per gli spettacoli che vi avevano luogo in estate. Si erano avvicinati incuriositi e si erano allontanati di colpo quando era stato chiaro che si trattava di un cadavere. Dopo il primo momento di smarrimento, avevano chiamato il 113 e avvisato i carabinieri. Avevano dovuto aspettare il loro arrivo, con il sole che ormai bruciava e il marmo che accecava, chiedendosi con lo sguardo più che con le parole che cosa potesse essere successo. Sembrava che l’uomo fosse morto di morte naturale, ma lassù, solo, perfino bello nella sua posa drammatica, come c’era arrivato? Non c’erano tracce di fuoristrada o di qualche altro veicolo  nelle vicinanze e le scarpe che indossava, mocassini di camoscio, non erano certo le più adatte per una scarpinata.  Non poteva neppure essere stato lì, sotto il sole, da molto tempo, altrimenti non sarebbe stato così integro. Finalmente si sentì il rumore di una jeep e arrivarono due  carabinieri, insieme a una donna in divisa,  la comandante della caserma locale. Ci furono le domande di routine,  l’invito a recarsi alla caserma prima possibile, la fine della gita per i cinque e l’inizio di una forte preoccupazione per la  comandante.

Annarosa Guarnieri era stata felice quando l’avevano mandata a C.G. Lei veniva da una città sul mare, nella zona meridionale della Toscana, che amava, ma meno di quanto amasse le montagne da scalare in estate  e la neve in cui immergersi in inverno e C.G. era situato proprio in mezzo tra le Apuane e gli Appennini Per questo la nomina con l’avanzamento di carriera tra gente semplice, in un posto tranquillo le era parsa una bella opportunità. Ora, però, la situazione cominciava ad essere diversa da quanto si era aspettata.

Del morto, non si aveva idea né chi fosse né da dove venisse o fosse voluto andare. Che la morte non fosse naturale sembrava evidente, altrimenti ci sarebbe stata almeno una richiesta di aiuto da parte di qualcuno. L’uomo non sembrava patito, anzi appariva  in forma, la forma di chi si prende cura del proprio corpo. Il vestiario, del tipo che oggi si definisce casual elegante, era in buono stato. Ma come era arrivato lì? Era chiaro, qualcuno ce lo aveva portato nella vecchia cava, ma come e quando?  Niente tracce di veicoli intorno né  di impronte. La carreggiata, fino quasi alla cava, era utilizzata dai tanti veicoli dei cavatori che lavoravano nelle zone vicine e tra sassi, marmettola e ghiaia non permetteva indicazioni valide. La pioggia, inoltre, come faceva spesso in giugno era caduta abbondantemente nella notte, quasi una tempesta di acqua e vento, e se impronte c’erano state sul selciato della cava, ormai erano cancellate. Naturalmente niente portafoglio né documenti, che potessero aiutarne l’identificazione e sugli abiti  etichette che al giorno d’oggi si trovano in ogni buon negozio.

L’autopsia avrebbe chiarito l’ora della morte e forse il modo, ma sarebbe bastato oppure lei, comandante di prima nomina, avrebbe dovuto rivolgersi a qualcuno con più esperienza per risolvere il problema? L’aveva presa all’improvviso un senso di scoramento, quasi di dolore di fronte a una vita interrotta, che la faceva sentire impotente. Anche le pratiche più semplici nell’anfiteatro di marmo si complicavano: far venire lassù il medico legale, avvisare la scientifica, fotografare il morto, spostarlo per effettuare l’autopsia, lasciare qualche segnale per indicare il punto e la posizione del cadavere. Poi, giù di corsa in ufficio per il verbale e le deposizioni e soprattutto per pensare e connettere i pochi fatti emersi e passare al lavoro da fare subito. Inviare i vestiti al Reparto di investigazioni scientifiche per risalire al DNA del morto e per individuare altri  eventuali indizi. Distribuire la folto e lanciare un appello a chiunque potesse riconoscerlo, sperando di non essere invasi da false e assurde testimonianze.

Nei giorni seguenti non ci fu alcuna denuncia di scomparsa, nessuno venne a reclamare il cadavere, tanto meno a piangerlo. Per quanto riguardava la Guarnieri, durante il giorno le pratiche di routine la facevano allontanare dal  pensiero dell’uomo e della sua misteriosa morte, ma alla sera non poteva fare a meno di pensarlo, la notte le accadeva di sognarlo. I risultati dell’autopsia intanto non arrivavano. Decise allora di rivolgersi al commissario capo della questura di L. per aiuto. Si dice che i carabinieri e la polizia generalmente non vanno d’accordo, ma Annarosa si era trovata a indagare insieme al dottor Ranieri quando lei era ancora in servizio nel capoluogo provinciale e si era trovata bene sia professionalmente che umanamente. Antonio Ranieri, arrivato a L. dal sud qualche anno prima, era una persona rispettosa dei ruoli e delle funzioni degli altri, non tendeva mai a prevaricare ed era dotato di una buona dose di ironia che sollevava il morale. Annarosa aveva imparato a rispondere con qualche buona battuta al momento giusto. Chiamò dunque, ma il dottore era fuori,  lasciò  un messaggio urgente. Poco dopo  squillò il telefono.

Pronto, sei tu, che mi dici? Sono nel casino. Qui non succedeva mai niente, lo sai, e ora mi ritrovo tra le mani un uomo giovane morto, senza identità e morto chissà come. Cavolo, non ti vuoi proprio far mancare niente, ma io che c’entro? C’entri, c’entri e mi devi aiutare. A far che? A dipanare la matassa perché il morto potrebbe  essere delle tue parti. Ah, sì, così a occhio.. Sì, a occhio. E’ inutile che tu faccia delle battute. Vieni su, ti aspetto per pranzo, tanto per quello che devi fare tu…e qui si mangia bene, lo sai. Veramente io sono in dieta, anche di assassini, omicidi e morti e poi ce ne ho lavoro da sbrigare … Non scherzare, io non ci dormo più. Ti aspetto per l’una, l’una e trenta se vuoi, si va a mangiare sul lago e poi ti portiamo su alla cava, mi hai detto di non averla mai vista, ti assicuro, che a parte i cadaveri, merita.

La gita alla cava, al di là del piacere di trovarsi in un anfiteatro naturale scolpito nel marmo, non portò alcunché di utile. Nel frattempo però, era arrivato il risultato della autopsia: avvelenamento da cianuro. La prima reazione di Annarosa fu, veleno uguale  donna; quella del commissario, e se fosse un modo per depistare le indagini?  Oggi non si usa più  uccidere con la lupara oppure in una colata di cemento. Abbandonare un corpo avvelenato in una cava poteva essere una soluzione più facile ed efficace. Ma come era possibile che nessuno avesse sospettato una morte simile? Forse perché tutti pensano che un avvelenamento lasci segni cianotici sul viso, qualcosa di strano, di spaventevole. In realtà l’avvelenamento da cianuro procura una morte per arresto respiratorio e non compaiono i segni di cianosi che ci si aspetta, anzi cute e mucose possono apparire di un bel colore rosso marcato, quasi un indice di buona salute. Gli effetti dell’avvelenamento, se il cianuro è stato ingerito, compaiono nel giro di alcune decine di minuti o più, dipende da quando e quanto una persona ha mangiato. Giusto il tempo per arrivare alla cava e portarci un cadavere fresco. Che la cava in questione fosse spesso visitata, specialmente la domenica, era cosa risaputa, si voleva far trovare il morto in fretta e così era stato, la morte infatti risaliva a poche ore prima. Anche  la posizione  del corpo, nella sua teatralità, faceva pensare a qualcosa di voluto, un segnale inviato da chi lo aveva portato fino lassù.

Antonio Ranieri decise di rimanere qualche giorno,  non voleva  lasciare la giovane collega  in ambasce, era incuriosito dalla vicenda e attratto dalla bellezza del luogo. Inoltre, la famiglia, moglie e figli, erano già  partiti per il loro mare e lui aveva ancora un mese di tempo prima di andare in ferie  e  respirare aria salmastra. Chiamò la sede provinciale, lì tutto sembrava tranquillo. Poteva concentrarsi sul delitto della cava. Evidentemente luogo e tempo avevano una importanza fondamentale. Era necessario non dimenticarsene e cominciare a fare domande, iniziando dalla gente del posto. I cavatori in genere erano locali, ma i proprietari e gli imprenditori spesso venivano da lontano e non sempre la proprietà era conosciuta e facilmente rintracciabile. Anzi talvolta si trattava di scatole cinesi e di appalti passati di mano in mano. Comunque nessun forestiero aveva soggiornato di recente presso i due alberghi del paese né in quelli dei paesi vicini. Solo gruppi di camminatori e qualche scalatore, gente  conosciuta e che dormiva nei rifugi.

Per sapere cosa pensava la gente del luogo bastava frequentare i due bar del paese, dove le chiacchiere si sprecavano. Le persone facevano ipotesi, trovavano anche soluzioni, la questione era diventata una specie di “Chi l’ha visto”. Erano tutti convinti che dovevano essere arrivati da fuori, avere trasportato l’uomo dalla strada sterrata alla cava, abbandonato lì il corpo ormai cadavere e ripartiti in fretta. Ma chi fossero questi trasportatori di morti nessuno lo sapeva. Poi c’era il sindaco anche lui interessato alla vicenda per i suoi risvolti. Da un lato c’era l’afflusso di giornalisti e visitatori che stava aumentando e poneva problemi di viabilità, anche se produceva qualche effimero introito commerciale; dall’altro c’erano le possibili ripercussioni sulla economia locale, specialmente se il delitto fosse stato  collegato  alla estrazione del marmo.

In attesa delle risposte del RIS, Antonio decise di ritornare alla cava. Aveva bisogno di rivedere la scena del delitto e di ripensare al come e ai perché. Il dettaglio della posizione teatrale del cadavere non poteva essere trascurato. Una vendetta di cavatori verso qualche imprenditore sembrava poco probabile, non per il luogo ma per il modo, avvelenamento e posizione del corpo. Un delitto passionale  o di gelosia, legato a una professione specifica -teatro, cinema, televisione – pareva più realistico, due persone, l’assassino e la vittima, scese da un fuoristrada, che bevono qualcosa di amaro e frizzante e si avviano verso il selciato della cava, giusto quella decina di minuti prima dei sintomi e del decesso. Certamente qualcosa di previsto e ben organizzato. Ma come venirne fuori? La distribuzione delle foto segnaletiche non stava dando alcun effetto, al di là di due telefonate rivelatesi fasulle;  i risultati del DNA erano arrivati, ma non c’era niente nei data base che potesse aiutarne l’attribuzione. Evidentemente si trattava di uno sconosciuto incensurato. Forse bisognava rinunciare, d’altra parte erano sempre esistiti i delitti misteriosi non risolti, sottolineò il capo commissario  a mo’ di consolazione per la giovane collega. In realtà  lui non voleva accettare il fallimento, pensava che il tempo e la paziente ricerca avrebbero potuto aiutare, solo che di tempo da dedicare a questo caso ne aveva poco. Si aspettava da un’ora all’altra che qualcuno chiamasse  dalla sede provinciale  per farlo rientrare. Era vero che  L. non era lontana e  con le tecnologie di oggi  era facile tenersi in  contatto  ma non sempre questo bastava.

Era sul punto di ripartire quando la Guarnieri, come in un flash, esclamò ad alta voce, perché non ci ho pensato prima! E continuò: se la pista del teatro è verosimile, conosco una persona che ci può aiutare, è però strano che non si sia fatto vivo. Si tratta di un medico del posto, appassionato di teatro tanto da aver messo su una compagnia amatoriale qui, e soprattutto in rapporto con molte persone dell’ambiente. L’ho incontrato a un evento ufficiale e ho assistito a  una rappresentazione del suo gruppo, per niente male, poi ci siamo rivisti occasionalmente. Non disse che tra lei e il dottor Giannini si era creato qualcosa di più di una conoscenza occasionale. Entrambi persone cordiali, attente al  prossimo, avevano provata una attrazione reciproca che però, anche a  causa dei loro impegni  di lavoro, non si era concretizzata in qualcosa di più stabile. Annarosa provò a telefonare. La risposta arrivò subito, sono contento che tu abbia chiamato,  stavo per farlo io. Sono  appena tornato,  ero in vacanza per una settimana, un po’ lontano. Ho sentito del delitto, ho visto anche una foto, mi ha intrigato, poi ti dirò. Ma come va? Come stai? Non troppo bene e ho, anzi abbiamo bisogno di te, quando puoi venire? Anche subito, sono in zona e ancora piuttosto libero. Allora, corri.

Andrea Giannini fu ben lieto di correre per due buone ragioni: rivedere Annarosa e togliersi un brutto dubbio. Aveva l’impressione di aver conosciuto il morto ma voleva esserne sicuro. Chiese di vedere il cadavere e riconobbe la vittima. Si tratta di Jean Pierre Tadiush, un attore e un esperto di teatro di origine iraniana-francese,  padre iraniano e madre francese. Fu mandato in Europa a studiare per ragioni politiche, scelse l’Italia e io lo conobbi negli anni dell’università. Eravamo tutte e due appassionati di teatro perciò diventammo amici, anche se lui frequentava un’altra facoltà. Quando cominciava ad essere conosciuto nell’ambiente teatrale, era veramente bravo, si trasferì in Francia, non ho mai saputo perché, ho sempre pensato a un grande amore, ma forse c’erano altri motivi. Non poteva tornare in Iran per ragioni di sicurezza, questo lo sapevo. Ci siamo allora perduti di vista, però anni fa  ha partecipato a uno spettacolo alla cava, uno dei primi. Ricordo che ci siamo abbracciati, un po’ commossi, mi pareva contento della sua vita, anche se non ci fu molto tempo per parlarne. Ripartì subito dopo, accennò a un impegno in Francia e io non gli chiesi di più. E ora lo ritrovo qui, morto.

Malgrado le nuove informazioni la situazione non sembrava migliorare, anzi si facevano strada altri dubbi, c’erano per caso risvolti politici implicati nella vicenda? Jean Pierre  poteva essere stato vittima di una vendetta, di una persecuzione, addirittura  di un atto terroristico. La trama delle possibilità si allargava e si complicava. L’indagine ora che la vittima era stata identificata andò, comunque, in parte avanti. Fu facile risalire alla città francese dove Jean Pierre  viveva, Tolosa, una bella sede universitaria, piena di studenti e di avanguardie artistiche. Fu facile anche avere dalla gendarmeria locale notizie ufficiali su di lui, sul suo successo teatrale, non molto si seppe invece sulle persone a lui  vicine e sulla sua vita più intima. Per quanto se ne sapeva era scapolo, spesso fuori città per impegni di lavoro ma presente agli eventi culturali locali e benvoluto negli  ambienti artistici. Cosa poteva averlo riportato alla cava infittiva il mistero. Aveva scelto lui la località, ignaro di ciò che sarebbe potuto accadere? Era stato ingenuo oppure era stato costretto ad accettare luogo e tempo?  Aveva acconsentito di buon grado di arrivare lassù con qualcuno difficilmente rintracciabile una volta eseguita la condanna? Perché di condanna premeditata sembrava trattarsi Su richiesta urgente arrivarono ulteriori informazioni. I genitori rimasti in Iran continuavano a vivere grazie alla cittadinanza francese mantenuta dalla madre e al supporto dell’ambasciata francese. Il padre era stato più volte arrestato e interrogato dalle forze di polizia ma non aveva subito le conseguenze di altri liberali, un paio di notti in prigione e poi fuori, grazie anche alla sua indiscussa posizione di  intellettuale competente e coerente. Esperto archeologo e archivista, scrittore sia di saggi che  di documentazioni divulgative, era diventato una icona per molte persone, il che per il momento faceva da salvaguardia. Anche la madre era una esperta archivista che lavorava al recupero e al restauro di libri antichi. Sarebbero stati avvisati della morte del figlio dalla gendarmeria francese.

Alcuni giorni dopo la gendarmeria informò la  Guarnieri  dell’arrivo della  madre di Jean Pierre che voleva rivedere il figlio. La data non era certa ma l’ambasciata francese si stava adoperando perché ciò avvenisse in tempi rapidi. Infatti, dopo una settimana all’aeroporto di P., Annarosa e il dottor Giannini incontrarono la signora Tadiush, una bella donna dai capelli bianchi, vivaci occhi neri e grande rassomiglianza con il figlio. In francese, misto a qualche parola italiana, Dominique Tadiush chiese di vedere il corpo del figlio e dichiarò di voler  procedere alla sua cremazione per portare in Iran le ceneri. Il riconoscimento fu doloroso ma la dignità della donna le impedì di reagire in modo drammatico. Parlò dell’amato figlio, mandato a studiare in Europa per sottrarlo alle rappresaglie del potere iraniano continuamente in atto contro il marito. Jean Pierre inizialmente aveva scelto l’Italia come suo nuovo paese, per motivi culturali e affettivi. Era infatti appassionato della storia artistica dell’Italia e ne aveva studiato la lingua  sin da ragazzo. Era stato felice nel periodo universitario a Pisa. Successivamente, però, per seguire la sua passione per il teatro, si era trasferito in Francia dove erano maggiori per lui le opportunità di un lavoro professionale. La madre sapeva che il figlio voleva tornare in Italia per visitare i vecchi luoghi, ma non sapeva dell’esistenza della cava e della decisione di andare fino lassù. Chiese di essere accompagnata a vedere il luogo della sua morte, per cercare di capire, disse. Alcuni giorni dopo, con le ceneri raccolte in una piccola scatola, partì alla volta di Tolosa., dove aveva ancora dei lontani parenti e amici e dove forse avrebbe potuto sapere qualcosa di più sulla vita e sui legami affettivi del figlio. La Guarnieri e il dottore l’accompagnarono all’aeroporto, dopo una breve sosta a L per salutare il commissario che nel frattempo era tornato in sede. Erano tristi per non aver saputo dare una risposta alle tante domande  della madre e colpiti dalla sua  forza d’animo.

Annarosa Guarnieri soffriva  per questa situazione e soprattutto si sentiva frustrata. Per giorni sperò in notizie dalla gendarmeria francese ma non arrivò niente di nuovo. Sembrava che l’assassino si fosse volatizzato. La stampa locale cessò di interessarsi al delitto, anche in paese se ne cominciò a parlare meno. Per quella  estate  non era previsto alcun spettacolo alla cava, per cui anche i visitatori occasionali diminuirono. Finché, dopo due mesi circa, ci fu una svolta.

Andrea C., un omosessuale molto attivo nelle produzioni teatrali di avanguardia della zona, si era ucciso a Pisa  inghiottendo cianuro. In una lettera confessava di avere, lassù alla cava, avvelenato l’amico che lo aveva rifiutato per la seconda volta. La prima volta era accaduto quando erano entrambi giovani studenti universitari, la seconda quando Jean Pierre, arrivato dalla Francia per prendere visione di un nuovo progetto teatrale e ospite a casa di Andrea, non solo aveva dichiarato  di  non ricordarsi del suo amore giovanile, ma anzi ne aveva riso come di una passione che avrebbe dovuto ormai essere superata. Questo il movente. Il  resto, aggiunse, lo sapete.


Pubblicato in Garfagnana in Giallo- antologia criminale 2012  Prospettivaeditrice, Civitavecchia-Roma

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