I nonni di Mariella

Me li ricordo bene i miei nonni, quelli che ho conosciuto , tre su quattro. I nonni materni, la nonna Pina e il nonno Emilio e la nonna paterna, la nonna Dilina che in realtà si chiamava Adele ma non so chi l’abbia mai chiamata così. Il nonno Giovanni, il nonno paterno, è morto ancora prima che mio padre si sposasse e di lui conosco solo la foto che lo ritrae con uno sguardo buono. I racconti su di lui ne hanno fatto nel mio immaginario un uomo mite e gentile, capace di avventurarsi anche in America da dove è però tornato senza aver fatto fortuna.

Il nonno Emilio me lo ricordo riservato, taciturno. Non manifestava il suo affetto con baci e abbracci e nemmeno partecipava ai giochi di noi nipoti ma ci osservava e gli piaceva averci intorno. Un ricordo particolare mi lega a lui. I mei dovevano assentarsi qualche giorno e mi avevano lasciata a dormire dai nonni ma non me l’avevano detto . La sera venuta l’ora di andare a dormire io mi misi ad aspettare i miei e non ne volevo sapere di andare a riposare e ripetevo “ Il mio papà mi ha detto che sarebbe venuto a prendermi quindi verrà” ( fiducia illimitata e in questo caso mal riposta…) Allora il nonno, tra lo stupore generale, mi ha presa in braccio e mi ha portata con lui sul balcone, dove ha aspettato pazientemente fino alle quattro del mattino che mi addormentassi nell’attesa vana di mio padre. Da allora il legame è diventato più forte ma è sempre stato silenzioso, con qualche carezza in più. Il balcone dell’attesa c’è ancora e quando passo in quella strada mi rivedo là in braccio al nonno Emilio.

Le mie due nonne erano molto diverse tra di loro. Quella materna, la nonna Pina, era “la cittadina” e non solo perché abitava in città ma anche per il suo modo di vestire e il suo atteggiamento in generale. L’altra, la nonna Dilina, era una donna semplice di campagna che aveva seguito il marito mezzadro nei vari spostamenti e dopo la sua morte si era stabilita in paese vicino ai parenti mantenendo l’orto e il pollaio.

La nonna Dilina è stata molto presente nella mia vita. Viveva con noi tutto il giorno e la sera si ritirava in un appartamentino che era stata preparato per lei quando mio padre si era sposato; in realtà usava solo la camera da letto e il bagno così la cucina nel tempo è stata usata per altro. Me la ricordo sempre vestita di nero, con un grande grembiule a vita e a volte anche il “panöt”, un foulard, sempre nero, che annodava sul capo . Trafficava in cucina, in casa, nell’orto e nel pollaio, preparava da mangiare e probabilmente aveva anche altri compiti ma non ne ho mai avuto coscienza. Sono tanti i ricordi che ho di lei, proprio perché con lei ho trascorso tanto tempo. I miei genitori lavoravano e lei era la presenza di casa quando tornavo da scuola. Mi accudiva e mi lasciava libera di leggere, di giocare, di stare con gli amici senza imposizioni. Quando i miei uscivano la sera non si ritirava in camera sua ma stava accanto al mio letto finché non tornavano e mi addormentavo nel mezzo dei suoi racconti, racconti di famiglia in cui si avvicendavano personaggi che non avevo conosciuto ma che mi erano diventati familiari. Spesso avevano lo stesso nome che si ripeteva in varie sfumature così che confondevo facilmente il pa’ Giuan con il pa’Giuvanö . Me la ricordo ancora che la mattina mi preparava la colazione con un uovo fresco sbattuto con lo zucchero a cui quando sono diventata più grande aggiungeva il caffè. Era squisito, con un sapore indimenticabile forse anche perché lei incominciava a sbattere l’uovo alle sei di mattina… Era una donna saggia, attenta alla famiglia, sempre presente ma molto riservata. Quando venivano gli amici dei miei genitori, ad esempio, lei si ritirava “nei suoi appartamenti” perché si sentissero più liberi, immagino.

La nonna Pina era tutta diversa, si vestiva con cura e a volte metteva anche il rossetto . Era famosa per la sua cucina e per la sua accoglienza. In casa c’era sempre qualcuno che passava a salutarla e restava a chiacchierare volentieri oppure a giocare a carte. Con lei ho passato diversi periodi in montagna dove il nonno aveva la segheria e dove un giorno con sua grande disperazione ho infilato la testa tra le sbarre di una finestra senza riuscire più a toglierla. Anche in questo caso il nonno è stato provvidenziale e sentenziando “ Se è passata ad entrare deve anche uscire” con tanta pazienza riuscì a liberarmi. Non mi ricordo di aver mai giocato con lei, però mi ha insegnato a lavorare a maglia e all’uncinetto. Aveva una grande fiducia in me. Appena ho avuto la patente, il giorno stesso, da sola sono andata a prenderla nella città in cui abitava e l’ho portata a casa mia; lei è salita orgogliosa sulla macchina senza neanche chiedersi se fossi davvero pronta per quel tragitto! C’è un suo ritratto nello studio in uno degli atteggiamenti che ricordo di più: ha un lavoro tra le mani e gli occhiali sulla punta del naso.

Mariella

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