Casa, dolce casa

 

Casa dolce casa”, al diavolo chi lo ha detto la prima volta, doveva essere scapolo, ricco e con la governante. Io non ne posso più della mia casa con tutti i suoi annessi e connessi che sono tanti e niente affatto dolci, anzi mi fanno sentire prigioniera. Ho deciso, faccio la valigia e me ne vado. Non come quella mia amica che l’ha fatta tanto tempo fa e poi l’ha lasciata in un angolo.

Mi ci vuole un posto tranquillo, non caro, sul lago, ad esempio. Dicono tutti che il lago rilassa e poi non è lontano, non si sa mai cosa possa succedere. Devo ripensare a tante cose, fare un esame della mia vita, dimenticando per una volta gli altri, con tutti i loro bisogni, veri e fasulli.

Il borsone è fatto, per quello che non c’è mi arrangerò, ecco le chiavi della macchina e di casa. Ma devo lasciare un biglietto, spiegare, dire addio o capiranno lo stesso? Capiranno, ora è meglio fare le scale di corsa e via.

La donna ha guidato per due ore, adagio, è arrivata presto, si è fermata in un bar a mangiare un panino e poi ha raggiunto la pensioncina tranquilla che aveva in mente.

Ora è stesa sul letto, guarda un po’ stancamente il gioco di luci e ombre tra le imposte abbassate. Il sole fuori splende alto e il pulviscolo brilla in mille movimenti poi, ogni tanto, scompare nell’oscurità. Non è

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così anche nella vita? La donna dovrebbe cominciare a pensare a ciò che ha fatto, decidere ciò che vuole fare, ma non se la sente, è preda di un intorpidimento né triste né felice, solo sfibrante. Forse è ciò che accade quando l’adrenalina sale, fa diventare coraggiose, fa dire cose che non si sono mai dette, fa prendere decisioni vitali, e poi abbandona il corpo non appena ci si trova soli con se stessi. Ora vorrebbe solo addormentarsi.

 

Si assopisce infatti, piano piano, e poi cade in un sonno profondo. La risveglia con un sussulto un brivido di freddo. E’ ormai sera, la stanza è buia, deve alzarsi, deve disfare il borsone, deve scendere a cena, deve telefonare alla madre, almeno a lei. E’ caduta di nuovo in quel verbo terribile, dovere, che l’ha spinta a fuggire di casa.

All’inizio non era così, anzi. L’università interrotta senza remore, l’amore accecante, il matrimonio forse riparatore, anche se a lei non era apparso tale, la bellezza sua e del marito, la maternità che le faceva venire voglia di amare tutti e di donarsi a tutti. “Lo faccio io, ci penso io”. Dapprima era stato un modo per esprimere amore e forse per sentirsi importante nella sua nuova condizione di casalinga. Poi era diventata un’abitudine, un sistema per non perdere tempo – faccio prima a farlo che a chiederlo – e così gli altri, all’inizio il marito poi, con gli anni, i due figli, avevano cominciato a

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dire “torna meglio a te”. Torna meglio a te telefonare , se la telefonata era di convenienza, di scusa, di rifiuto, di rimprovero. Torna meglio a te se c’era da svolgere mansioni burocratiche, fare file o risolvere piccole grane. E mai un grazie, un per favore, solo un accumularsi di richieste, di impegni e di fatiche. Perché c’era anche la casa, bella e grande, da mandare avanti, e il cibo che doveva essere sempre buono, e lei era una brava cuoca.

 

Certo con i figli, un ragazzo e una ragazza, aveva sbagliato, sua madre glielo diceva, la suocera no. Anzi il suo dire era: ”I bambini crescono, devono giocare, devono essere seguiti, la mamma deve stargli vicino, non si sa mai oggigiorno”. Erano, infatti, cresciuti, belli, intelligenti, viziati e egoisti.

Il mattino dopo era nuovamente una bella giornata, di sole splendido. La donna usci presto, decise di fare il giro del lago. L’aria fresca la rinfrancò, pensò che si sarebbe presa una vera giornata di vacanza, era tanto tempo che non le accadeva. Lungo il lago poche persone, per lo più anziane, sedute sulle panchine a pochi metri l’una dall’altra, ma anche qualche mamma con bambini piccoli, belli. C’era anche qualcuno che camminava rapido e qualcuno che correva, uomini per lo più. Si scoprì a sorridere un po’ ironicamente mentre camminava, chissà come era essere uomini.

Si rese conto di non aver telefonato alla madre. Aveva spento il cellulare una volta arrivata alla pensione e l’aveva abbandonato nella borsa. Era pieno di messaggi e chiamate senza risposta. Doveva rassicurare la madre e chiederle di avvisare marito e figli, stava bene e aveva bisogno solo di stare tranquilla.

La madre capì, anche se non nascose sorpresa e ansia. Era molto diversa da lei, una donna energica che aveva sempre fatto la segretaria in una grande azienda, una segretaria con incombenze ben al di sopra del suo ruolo e stipendio. Era il padre, in famiglia, la persona dolce, pacifica e casalinga. La madre era rimasta molto contrariata quando la figlia aveva interrotto l’università per sposarsi. Una creatura era in arrivo, ma questo non obbligava a sposarsi. Erano in tre in casa e certamente avrebbero potuto allevare un nipote anche con gli studi della figlia in corso.

A mia moglie ci penso io, non ha bisogno di lavorare”, aveva detto il futuro marito, e lei si era sentita orgogliosa di queste parole.

Si mise a pensare alla sera dei due giorni precedenti. L’ora di cena con marito, figli e suocera, la tavola ben apparecchiata, le parole pronunciate per dire che avrebbe voluto seguire un corso di scrittura per donne. Ricordò le quattro facce sorprese e le parole dei figli: “Un corso di scrittura, alla tua età”, il colpo basso della suocera: ”Vuoi scrivere le memorie di una casalinga?” , poi le domande del marito, incalzanti, come battute di un interrogatorio: ”Dove, con chi, quando, perché?”

Aveva risposto con calma: si trattava di una serie di incontri che potevano anche sfociare in una piccola pubblicazione, ma che volevano soprattutto essere un modo per far ritrovare insieme le donne. Certo c’era il problema dell’orario, dalle sei e trenta alle otto e trenta di sera, l’ora della cena, due volte la settimana per la scrittura e una volta per un minicorso di lettura, ma il costo era irrisorio, solo una piccola somma di iscrizione. E per la cena, non si preoccupassero, avrebbe lasciato tutto pronto.

Aveva fatto cadere l’argomento, anche se si era sentita ferita, con le lacrime a fior di pelle. Era andata a letto come al solito, ma non era riuscita a dormire. La mattina dopo, una volta che tutti erano usciti, aveva preso la sua decisione.

Si ritrovò sola in una piccola insenatura del lago. Si mise a sedere e cominciò a piangere. Piangeva senza sapere esattamente perché. Fu un pianto liberatorio. Alla fine sorrise ripensando alle parole ironiche e spavalde che aveva detto fra sé e sé poco prima di chiudersi la porta alle spalle.

Casa, dolce casa”, doveva ricordarle bene per andare avanti da sola.

Maria Pia Pieri

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